Nella crisi attuale, che tocca almeno un terzo delle PMI, resistono con incrementi positivi (+35/40%) quelle che lavorano con l’estero. Risultati che non sono casuali perché richiedono agli imprenditori lungimiranza, flessibilità, preparazione, coraggio.
L’Unione Europea da tempo propone Piani pluriennali di Sviluppo (2007-13) con supporti finanziari e strategici alle attività all’estero, ma normalmente non conosciuti dalle imprese perché non coordinati con programmi nazionali.
Mercati esteri e internazionalizzazione
Dall’indagine effettuata su 100 PMI lombarde che già operano nei Paesi esteri, risulta che si apprezzano le missioni e promozioni organizzate per i contatti con l’estero; però che dopo gli accordi non c’è più alcuna assistenza da parte delle nostre istituzioni nei rapporti spesso difficili con autorità locali, dogane, fisco, sindacati, tribunali.
Per assicurare una migliore assistenza dovrebbero essere riunite in un unico Ente (magari il Consolato) tutte quelle funzioni di servizio economico commerciale che oggi all’estero sono disperse tra Consolati, Ambasciate, ICE, Enit, Camere Commercio.
Il ruolo del rappresentante italiano sarebbe anche quello di attivare programmi organici a lungo termine di cooperazione tra le nostre PMI con imprese e associazioni del Paese estero nel quadro dei programmi europei.
Dall’indagine emerge anche l’individualismo dei nostri imprenditori che preferiscono operare da soli all’estero, senza sinergie con altre aziende.
Impostazione che però ne riduce la competitività perché le Piccole e Medie Imprese, da sole, rimangono marginali, senza quella dimensione minima organizzativa, indispensabile per operare in profondità e in modo ramificato sui Paesi esteri.
In particolare lo sviluppo nei Paesi detti “emergenti” richiede proposte complete, integrate e soluzioni “chiavi in mano” che si possono studiare e realizzare solo in pool o consorzi di imprese coordinate e associate. La riunione di competenze “eccellenti” consente inoltre di concorrere a gare e appalti internazionali di prestigio ed elevata remunerazione.
“Nessun risultato senza preparazione”
L’Istat evidenzia che i risultati positivi di un quarto delle imprese italiane, quelle che operano all’estero, danno ossigeno all’economia italiana per sopravvivere in questo grave momento di crisi. Ma come è possibile che un Paese come l’Italia, dagli ampi rapporti internazionali, veda così poche imprese attivarsi sulle opportunità offerte dai mercati esteri? Forse è sull’altra faccia della luna, quella che non vediamo, che si nasconde un’altra economia, sommersa, criminale, parassitaria, che contribuisce con attività ricche ma invisibili al PIL nazionale.
Tornando alla faccia della luna “visibile”, possiamo identificare cause del nostro ritardo competitivo anche in tre fattori che appaiono collegati: il diffuso “analfabetismo”, il disinteresse per l’impegno politico e l’apatia elettorale, il sistema scolastico in gran parte obsoleto.
Secondo le Indagini Unesco 2005 circa il 25% degli studenti italiani che esce dalla scuola media inferiore non sa leggere o scrivere. Ci sono 36 milioni di italiani che l’OCDE suddivide in analfabeti, semianalfabeti, analfabeti di ritorno (tra i quali anche laureati), comunque non in grado di affacciarsi sul mondo del lavoro e difendersi di fronte ai continui cambiamenti della società. Quasi a conferma di una carenza di preparazione, ci sono le conclusioni del convegno tra direttori del personale e business school italiane sul dialogo tra università e impresa: “Le capacità tecniche non bastano più, gli studi universitari devono preparare al lavoro in team, alla pianificazione delle attività, alla negoziazione, a comunicare in modo efficace con colleghi, capi e supervisori, a gestire il cambiamento: purtroppo questi temi sono sconosciuti ai nostri laureati!”.
Salvo le solite eccezioni dovute a presidi e docenti appassionati, la nostra scuola dà purtroppo l’impressione di non “amare” l’impresa. Nelle nostre scuole, a ogni livello, è quasi assente infatti l’approfondimento di problemi economici, degli aspetti riguardanti l’organizzazione e la gestione etica delle aziende, della Pubblica Amministrazione, il rapporto tra utile e profitto e spesa sociale, la pianificazione dello sviluppo, l’internazionalizzazione. In questo quadro non c’è quindi da aspettarsi che i politici che ci rappresentano siano molto diversi dalla base nazionale. Tocca allora agli imprenditori, che sebbene autodidatti sono la locomotiva del “Sistema Italia”, sopperire con precise proposte alle carenze dei rappresentanti politici senza limitarsi a dire, com’è avvenuto in passato, “Il Governo deve fare di più!”.
La scuola madre di ogni successo
Di fronte all’accelerazione delle innovazioni tecnologiche e alle rapide evoluzioni dello scenario socio-economico mondiale, il nostro sistema scuola e università appare chiaramente obsoleto. Studenti e lavoratori non vengono preparati a inserirsi nella competizione internazionale e rimangono in un limbo di disoccupazione.
Scuola e università dovrebbero invece sintonizzarsi con le attese del mercato del lavoro dove dalle indagini risulta che un 60% di proposte di lavoro vengono disattese per impreparazione dei candidati o addirittura per mancanza dei profili professionali richiesti.
Nei Paesi più competitivi la scuola integra i momenti di formazione in aula con la sperimentazione sul campo delle tecniche apprese, accelerando così per gli studenti il più rapido inserimento nel mondo del lavoro. La competizione internazionale non consente più di mantenere nella scuola posizioni parassitarie per interessi corporativi o sindacali. Anche le università devono entrare nella competizione internazionale dimostrando di sapersi autofinanziare almeno in parte. Occorre infatti che le università svolgano un ruolo più “problem solving” nella realtà quotidiana delle imprese, delle istituzioni pubbliche, della società reale confrontandosi con la concorrenza e dimostrando la propria eccellenza acquisendo contratti di consulenza, di servizio, di ricerca con imprese private, enti e istituzioni dello Stato a tutti i livelli.
Un rettore del Politecnico di Milano ha confermato che in questo modo potrebbero addirittura raddoppiare il budget dell’università e creare un indotto in grado di attrarre studenti da ogni parte del mondo.
Ma occorre il coraggio di eliminare ogni equivoco dichiarando subito l’incompatibilità tra l’attività di docenza e l’esercizio di proprie attività autonome professionali fuori dall’università. Deve infatti cessare da parte dei docenti l’utilizzo della qualifica di professore come strumento di promozione dell’attività professionale svolta da parte di medici, avvocati, architetti, consulenti, in modo indipendente, senza vantaggio per l’università.
Chi sceglie la carriera di docente universitario deve dedicare il proprio tempo pieno e totale all’università sia come docente, sia come consulente: l’attività di consulenza deve essere poi fatturata in nome e per conto dell’università e remunerata secondo i normali parametri di ogni studio professionale. Si eliminerebbe in questo modo anche l’attuale sfruttamento improprio degli studenti per lavori di esclusivo interesse personale del docente, con il vantaggio e l’opportunità di coinvolgere, premiare e remunerare economicamente sia i ricercatori, i precari e anche gli studenti che collaborano alle consulenze dell’università, questo nell’applicazione dei principi della alternanza di teoria e pratica sul campo.
Silvio Cocco | Corrado Tomassini
Costruzioni | Dicembre 2012